Ore 8, salgo in metro. Linea 8, vagone 1, direzione aeroporto. In 20 minuti arrivo. Affollato ma non troppo, non cerco di sedermi, tanto il tragitto è breve. Età media 30 anni. Chi parte con piccole valigie, chi va a lavorare con lo zaino e i documenti.
Tutti tranquilli, è ancora presto. Rifletto su quello che lascio nella città di partenza e quello che trovo nella città di arrivo. Contenta? Non esattamente, ma va bene così, le cose evolvono in positivo.
Portafogli, sì. Documenti, sì. Computer, sì. Devo ricordarmi di chiudere il lucchetto della Valigia. Ok, dovrebbe essere tutto a posto. Godiamoci queste ore di solitudine.
Non è tanto alto, avrà poco più di 30 anni, capelli corti completamente bianchi e un taglio sbarazzino. Perché lo vedo? Perché guarda intorno senza malizia, guarda le persone alla ricerca di un contatto. Mi pare leggero ritardo mentale. Occhi azzurrissimi dietro occhiali un po’ intellettuali rossi. Maglietta blu con una scritta ricamata, zainetto in spalla. Mi guarda e incrocia i miei occhi.
Li giro da un’altra parte ma senza cambiare espressione, cercando di essere naturale, non voglio offendere. E allora perché distolgo lo sguardo? Non che io abitualmente fissi tutti quelli che mi guardano, ci mancherebbe, ma lui cerca solo un sorriso.
Li giro da un’altra parte perché ho paura di non capire quello che dice; e mi vergogno di me stessa. Allora lui guarda il ragazzo giovane vicino a me e si mette a parlare con lui. Così io guardo senza essere guardata. Lui non ha paura.
E vedo i mignoli delle loro mani che si incrociano: mi soffi sul braccio? E il ragazzo soffia. Poi scambiano due parole. Poi lui mette la mano vicino all’orecchio e il ragazzo soffia di nuovo. Ci guardiamo e sorridiamo.
Anche dall’altra parte del vagone sorridono.
Incrocio di nuovo i suoi occhi. La paura inizia a passare. Lui mi guarda e poi continua lo scambio di parole e soffi con l’altro ragazzo.
Ogni tanto si passa la mano sulla punta del pene, come fanno i bambini (forse).
«Io scendo qui, buona giornata», dice il ragazzo giovane. «Buona giornata a te» dice lui.
Mi guarda, si avvicina, gli sorrido. Guarda la mia valigia. «Buon viaggio», «Grazie. Tu dove vai?», «Al mio lavoro».
Mi colpisce profondamente l’orgoglio con cui lo dice.
«Lavori in aeroporto?», «No», «Dove lavori?», «Al mio centro», «Bene, mi fa piacere».
«Mi soffi?», e alza l’avambraccio. Gli soffio leggermente. «Anche sotto». Soffio sotto. «Un po’ più forte». Soffio un po’ più forte.
Prende il telefono, una schermata piena d’iconcine come se fossero appuntamenti. «Quante cose che ho venerdì». Penso: oggi è giovedì. Dico: «È bene avere tante cose da fare», «Sono contento oggi», «Perché?», «Perché sabato vengono a prendermi», «Chi viene a prenderti?», «I miei genitori».
Una voragine si apre nel mio cuore.
«Ho voglia di vederli. Mi soffi?», «Sì».
Sguardi teneri dall’altra parte del vagone. Un alone di serenità.
«Da dove vengono?», «Dalla Francia», «Sono in viaggio?», «Sì».
«Ora devo scendere, sono arrivata in aeroporto», «Scendo anch’io, aspetto una collega», «Ok».
«Prendo l’ascensore, con la valigia preferisco». Mi segue. Una ragazza sale con noi.
«Soffia, più forte». Mette la mano vicino all’orecchio, a imbuto, come aveva fatto con l’altro ragazzo. Soffio. «Lo sento. Ora sui capelli, soffiami sui capelli, anche qui, nel palmo della mano».
«Queste sono le tue coccole?», «Sì sono le mie coccole», «Allora ti soffio ancora».
«Ci vogliamo bene vero?», «Sì ci vogliamo bene».
Mi abbraccia, ma solo avvicinando la mano alla mia schiena, mi avvolge con il braccio senza toccarmi, il suo corpo non tocca il mio. Cerco di fare uguale. E sorrido.
«Devo andare altrimenti perdo l’aereo», «Sì, ciao» mi dice. Mi allontano, lo guardo andare via, si gira, si guarda intorno, scende di nuovo le scale verso la metro.
Il sorriso è entrato dentro di me.
Linea 8, vagone 1, treno delle 8 del mattino, età media 30 anni: nessuno oggi riuscirà a farci arrabbiare.